PERCHÉ “PICCOLE” SUORE DELLA DIVINA PROVVIDENZA

Quell’aggettivo è solo un ripiegamento privato di umiltà, una pratica ascetica di modestia? Certamente no: è un epiteto che ha una lunga tradizione e che accompagna tutta la storia della riflessione cristiana. L’uomo mondano si sente “debole”, ma non si dice “piccolo”; tende piuttosto a proclamare la sua “grandezza”, in un’istintiva ricerca di superare quel senso di fragilità che lo angoscia nel suo intimo. Stiamo, culturalmente, vivendo gli ultimi sussulti di quel movimento esistenzialista che si compiacque di evidenziare la nostra sostanziale inconsistenza di persone umane. Molti si ammettono caduchi, non sanno perché vivano, dove vadano, se al traguardo li attenda qualcosa o il nulla: si proclamano instabili ed infelici ma non si confessano “piccoli”. Ed è logico: quello di “miseria umana” è un giudizio che riguarda la vita in se stessa; la “piccolezza” invece si trova soltanto in relazione ad una “grandezza”; la “debolezza” è una valutazione chiusa, senza riferimenti ad altro; la “piccolezza” non nega un valore, ne afferma solo un altro più sublime.
“Piccolo” segna la misura dell’uomo di fronte a Dio; non è spregiativo, come se si trattasse di un qualcosa di ignobile o di incapace, è affermativo: suggerisce un collegamento: il cristiano è “piccolo” in quanto creatura, concetto che richiama quello di Creatore. “Piccolo” in questa connessione con Dio, viene quindi a trascendersi: presuppone un contatto con l’Infinito che lo eleva. E’ una “piccolezza” che ha una radice di eccellenza, perché “fa coppia” con Dio; induce a pensare ad una natura che si apre, attraverso la soprannatura, a Dio: in questa luce la “piccolezza” diventa grandissima, acquista un riflesso della dimensione divina.
Il “piccolo” che vive con Dio s’innalza a Lui, proprio come Lui si abbassò alla nostra umanità. Non per nulla Madre Teresa nel Messaggio natalizio del 1937 lascia le sue “piccole” Suore “in compagnia del “Piccolo Dio”, il quale nel Presepio ci accoglie e che come “Piccolo Re” ci attende nell’ Eucaristia.
Che immensità di respiro in questa “piccolezza” e che limpida serenità ne proviene! Ha avuto ben ragione Madre Teresa, nel medesimo Messaggio natalizio, ad affermare la necessità di essere “piccole” dinanzi a Dio per ricevere nell’anima un’inondazione di “pace”. La “piccolezza” è condizione della “pace, cioè della gioia profonda di quella che non abbiamo il coraggio di chiamare “felicità”, ma che quel nome pure lo merita. “Piccolo” non è depressivo, è invece esaltante: inserisce un’immensa sicurezza nelle nostre inquietudini ed un valore intramontabile in quelle azioni quotidiane che ci verrebbe voglia di chiamare insulse. È un “piccolo” trasceso nell’infinità di Dio! Umiliante? A rifletterci bene c’è piuttosto il pericolo di insuperbirci.

Enrico Trisoglio, FSC

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